martedì 28 gennaio 2014

presentazione di Ludwig WIttgenstein

«Se il mio nome sopravviverà sarà solo come il terminus ad quem della grande filosofia occidentale. Un po’ come il nome di colui che ha bruciato la biblioteca di Alessandria»[1]. In tale modo, in una pagina di diario del 1930, Ludwig Wittgenstein pensava a se stesso e alla propria filosofia. Consapevole di avere avuto un ruolo essenzialmente distruttivo, critico e soprattutto – a suo avviso – finale nella storia del pensiero occidentale. Né tale ruolo meramente ‘negativo’ gli sembrava un rimpicciolimento dell’importanza della propria opera, poichè lo giudicava una propedeutica ad un nuovo pensare: «Da che cosa acquista importanza la nostra indagine, dal momento che sembra soltanto distruggere tutto ciò che é interessante, cioè grande e importante? (Sembra distruggere, per così dire, tutti gli edifici, lasciandosi dietro soltanto rottami e calcinacci.) Ma quelli che distruggiamo sono soltanto edifici di cartapesta, e distruggendoli sgombriamo il terreno del linguaggio sul quale essi sorgevano»[2].
Ciò che Wittgenstein auspicava, con la propria opera, era 1) sgomberare il campo dagli pseudo problemi che avevano avvilito il pensiero occidentale – essenzialmente problemi metafisici legati alla ricerca di un’essenza stabile ed occulta, sottostante il mondo fenomenico– causati da un fraintendimento del nostro linguaggio; 2) fornire un metodo che servisse da guida per evitare ulteriore confusione e per restituire l’uomo alla naturalezza ed immediatezza del mondo della vita.
In questo secondo aspetto, si coglie in contro luce la finalità etica della propria filosofia, sebbene di un’etica “paradossale” in quanto si risolve in un’agire che non può formalizzarsi in alcun canone o dettato morale, poiché tutta la filosofia di Ludwig Wittgenstein è segnata dalla convinzione che l’etica sia indicibile. Parlare di BeneBelloEssereAnima, ci ricondurrebbe in quel pantano di confusione e insensatezza linguistica che ha caratterizzato duemila anni di pensiero occidentale; Wittgenstein, invece, vuole che dopo la propria filosofia risulti impossibile porre gli interrogativi alla stessa maniera in cui si è sempre fatto: «i problemi vengono dissolti nel vero senso della parola - come una zolletta di zucchero nell’acqua»[3].
Abituati ad una filosofia sistematica, nella quale si costruisce, si integra, si accordano saperi e teorie, si innalza un edificio coerente ed esaustivo sul reale, l’idea deflattiva di filosofia proposta da Wittgenstein può apparire debole, quasi umile e priva di ambizione. Eppure, egli la considera la terapia per restituire all’uomo occidentale quella semplicità e quella “pace nei pensieri”, che proprio l’impulso velleitario di costruzione sistematica e di spiegazione omnicomprensiva gli aveva tolto. «Certo, allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta»[4], così nel Tractatus, con un motteggiare che ricorda da vicino la scrittura Zen, Wittgenstein rivendica il ruolo radicale del proprio pensiero: «Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: Nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale - dunque qualcosa che con la filosofia nulla ha che fare - , e poi, ogni volta che un altro voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro - egli non avrebbe la sensazione che noi gli insegniamo filosofia - , eppure esso sarebbe l’unico metodo rigorosamente corretto»[5].
Nonostante nello spazio di poche pagine sia più efficace dare i tratti unificanti e coerenti dell’intero percorso wittgensteiniano, non è tuttavia possibile – a meno di  imperdonabili omissioni e conseguente travisamento – fornire del filosofo austriaco un ritratto privo di contraddizioni, che non tenga conto, cioè, della svolta che Wittgenstein ha impresso alla propria filosofia intorno agli anni  ’30. Tale svolta sta alla base della classica distinzione, presente in quasi tutta la storiografia filosofica che lo riguarda, fra il primo e il secondo Wittgenstein.
Con la dizione primo Wittgenstein, ci si riferisce essenzialmente al Tractatus logico-philosophicus, e ad alcuni piccoli scritti coevi (Alcune osservazioni sulla forma logica, Note sulla logica, Note dettate a G.E. Moore in Norvegia, Quaderni 1914-1916). In queste opere non solamente è palese la filiazione, sebbene polemica ed “eretica”, delle proprie problematiche dalla logica di Bertrand Russell (che scrisse l’introduzione all’opera) e di Gottlob Frege,  ma è ancora profonda la convinzione che sia possibile con un taglio netto recidere ciò che può dirsi chiaramente (il Logico) da ciò che non può dirsi affatto (il Mistico).  Nel Tractatus è ancora forte l’idea che sia possibile un linguaggio chiaro e senza sfumature, quello logico-matematico, che ci preservi dalle confusioni metafisiche e che riposi su una perfetta adaequatio tra nome e oggetto. L’ontologia del Tractatus logico-philosophicus, sebbene in modo già controverso, è una sorta di paradossale “atomismo organicista”, in cui è postulata l’esistenza del Semplice, dell’elemento singolo che compone la realtà e, in modo speculare, il linguaggio.  Sebbene il titolo del libro sia un lampante richiamo a Spinoza (il Tractatus ethico-politicus), Wittgenstein non accetta da Spinoza l’idea che il linguaggio more geometrico possa essere applicato anche all’etica. Quest’ultima rientra, insieme all’estetica e alla credenza religiosa, nell’insondabile sfera del Mistico, di ciò che si mostra ma che non si può dire. «Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: Nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale - dunque qualcosa che con la filosofia nulla ha che fare - , e poi, ogni volta che un altro voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro - egli non avrebbe la sensazione che noi gli insegniamo filosofia - , eppure esso sarebbe l’unico metodo rigorosamente corretto»[6]. Andando contro l’idea tradizionale che la filosofia sia quella scienza che fornisce, se non le risposte, almeno le domande fondamentali all’uomo, Wittgenstein ritiene invece che il fine della filosofia sia la cessazione di ogni domanda. In una fondamentale quanto vitatissima lettera all’amico von Ficker, Wittgenstein presenta così il Tractatus logico-philosophicus: «il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto, ed inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante. Ad opera del mio libro, l’etico viene delimitato, per così dire, dall’interno; e sono convinto che l’etico è da delimitare rigorosamente solo[7] in questo modo. In breve credo che: tutto ciò su cui molti oggi parlano a vanvera, io nel mio libro l’ho messo saldamente al suo posto, semplicemente col tacerne»[8]. La filosofia non costruisce più sul terreno della metafisica e dell’etica cattedrali sistematiche, ma innalza dei muri che impediscono all’uomo di entrarvi maldestramente con la sua logica totalmente inadeguata, atta a descrive il come e non a spiegare il cosa. Il primo Wittgenstein paragona il proprio metodo filosofico ad una scala: «Le mie proposizioni illuminano così: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse - su esse - oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettare la scala, dopo esservi salito). Egli deve superare[9] queste proposizioni; è allora che egli vede rettamente il mondo»[10].
La filosofia è un metodo che ci porta a qualcosa (una scala) non un’ontologia o una dottrina su qualcosa. Date queste premesse, la prima fase del percorso wittgensteiniano, si conclude con la celebre frase: «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere»[11]. Occorre tenere presente, altrimenti si cade in un’interpretazione di mistica tradizionale, che la negazione del linguaggio ha in Wittgenstein un valore positivo: il silenzio delimitando il dicibile, rende possibile il linguaggio.
Questo silenzio non fu solo teorizzato. Dal 1921 in poi, anno di pubblicazione dell’opera, Wittgenstein smetterà di fare filosofia, facendo prima l’architetto, poi il maestro elementare e  perfino il giardiniere, immergendosi, cioè, in quella vita, che sarà la cifra del suo secondo filosofare.
Nella proposizione 107 delle Ricerche filosofiche, Wittgenstein fornisce spiegazione al silenzio  cui conduceva il metodo della sua prima opera, mettendo in evidenza che quel tacere, quella fine del filosofare, non erano un incidente di percorso del Tractatus, ma erano la conseguenza coerente e non aggirabile di quanto l’opera aveva teorizzato (molti interpreti, i primi dei quali Russell e i circolisti, avevano pensato alla chiusa mistica, come una deviazione dalla purezza del Tractatus, non scorgendovi, invece, il necessario esito): «Siamo finiti su una lastra di ghiaccio dove manca l’attrito e perciò le condizioni sono in certo senso ideali, ma appunto per questo non possiamo muoverci. Vogliamo camminare; dunque abbiamo bisogno dell’attrito. Torniamo sul terreno scabro!»[12]. L’esperienza didattica nella scuola elementare, forse ancor più che le altre esperienze extra-filosofiche, lo mise a contatto con il problema reale – e non più formale – dell’acquisizione del linguaggio e del significato delle parole. Ancor prima di approdare alla stesura finale delle Ricerche filosofiche[13], Wittgenstein farà sedimentare la sua filosofia matura in scritti quali Libro bluLibro marroneGrammatica filosofica, in cui il problema del significato di una parola assume un carattere centrale e il problema del linguaggio si sposta in modo sempre più marcato, da uno spazio privato e mentale ad uno pubblico e intersoggettivo. Si potrebbe tergiversare a lungo per spiegare in che modo questo scarto si sia verificato, ma basta affidarsi a questa frase «Il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio»[14]. Questa frase, benché possa apparire a chi non si occupa di filosofia del linguaggio quasi banale, segna invece il definitivo distacco di Wittgenstein dall’influenza di Gottlob Frege, che aveva dato una celebre definizione del significato attraverso il cosiddetto triangolo (poi ripreso da Ogden e Richards) segno-senso-significato[15], nel quale il senso è il contenuto cognitivo del nome e il significato è l’oggetto corrispondente al nome. Tale distinzione oltre ad essere quanto mai problematica, demandava ad uno spazio intimo, mentale la comprensione del linguaggio. Ad ogni nome corrispondeva una rappresentazione; il problema fregeano era stato quello di cercare un senso oggettivo, laddove le rappresentazioni non potevano che essere soggettive. Quando dice che il significato è l’uso che noi facciamo di una parola, Wittgenstein trasferisce il significato dal luogo arcano della mente a quello plurale dell’azione. L’uso di una parola è da sempre un uso plurale in quanto chi parla un linguaggio lo fa in un contesto pubblico. Il soggetto che usa il linguaggio non è un soggetto disincarnato, non è il cogito cartesiano né l’Io puro di Kant, ma è un essere sociale, in quanto l’uso rimanda ad un contesto di attività e consuetudini sociali. Senza la dimensione della prassi il linguaggio non sarebbe perfetto, sarebbe morto: «Ogni segno, da solo, sembra morto. Che cosa gli dà vita? – Nell’uso, esso vive. Ha in sé l’alito vitale? – O l’uso è il suo respiro?»[16]. E ancora: «Il segno (l’enunciato) riceve la propria significanza, il proprio significato, dal sistema di segni, dal linguaggio cui appartiene. In breve: comprendere un enunciato significa comprendere un linguaggio. È come parte del sistema di linguaggio che l’enunciato ha vita. Ma v’è la tentazione d’immaginare che ciò che dà vita all’enunciato sia qualcosa, in una sfera misteriosa, che accompagni l’enunciato. Ma qualunque cosa accompagni l’enunciato non sarebbe per noi che un segno ulteriore, un altro segno»[17]. Siamo così passati da una concezione atomistica ad una olistica del linguaggio. Wittgenstein usa spesso la metafora degli scacchi: come in una scacchiera, il re significa solo in rapporto ad un complesso sistema di regole, solo in rapporto ai pedoni, alla regina, ecc… Da solo non significa nulla. Ai tempi del Tractatus, Witttgenstein ricercava l’essenza del linguaggio sotto la superficie del linguaggio quotidiano, dagli anni ’30 in poi arrivò alla conclusione che non bisognasse cercare al di sotto della superficie, ma che era necessario guardare con sguardo nuovo alla superficie stessa.
Tale sguardo nuovo è tipico di tutta la filosofia post-Tractatus ed è volto alla distruzione di quella che Gargani chiama la «logica del doppio», orma di cartesianesimo, che ci spinge a credere che il linguaggio per funzionare abbia bisogno di un duplicato mentale, di un regno nascosto in cui i segni morti vengono vivificati, che vi sia una differenza tra il fenomeno e il reale: «Il fenomeno non è sintomo di qualcos’altro: è la realtà» scrive Wittgenstein nelle Osservazioni filosofiche[18]. Le parole non sono fenomeni dei pensieri, ma i pensieri esistono solo in quanto parole. Liberandoci dall’idea che il pensiero sia un processo occulto e solipsistico, malattia inoculata dal cartesianesimo, riconduciamo il linguaggio dai recessi interiori della coscienza alla sua base sensibile e sociale.  Il significato non è più oggetto di rappresentazione o intuizione, ma di una decisione, attuata nella prassi pubblica di una società. Siamo arrivati a quella svolta che è il passaggio dall’ «io» al «noi»[19], le parole infatti «hanno significato soltanto nel flusso della vita»[20].
Questa svolta wittgensteiniana presuppone l’abbandono dell’idea di essenza tanto in ambito linguistico, quanto in ambito concettuale (sebbene sia esplicito che in Wittgenstein questi due piani vengono definitivamente a coincidere). L’abbandono dell’essenza, ossia dell’universale quale quid unificante delle differenze, porta Wittgenstein ad elaborare due delle sue più celebri teorie: quella del gioco e quella delle somiglianze di famiglie.
Perché l’idea di gioco? Per vari motivi, ma anche perché ci consente di comprendere che così come noi chiamiamo gioco una serie di pratiche che non hanno un’essenza in comune fra loro – il calcio, gli scacchi, il bridge – allo stesso modo possiamo mettere sotto uno stesso termine, vari concetti, che però non vanno considerati come accidenti di un’unica sostanza.
Il gioco del calcio, del basket, del golf sono imparentati dall’utilizzare una palla, la dama e gli scacchi da una scacchiera, la canasta,il bridge e il solitario dalle carte, e via dicendo.[21] Non è più possibile rappresentare queste differenze sotto forma di albero, poiché esse costituiscono «una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda»[22].
Non è possibile tracciare un confine fra un termine e l’altro, poiché tale confine non esiste. Wittgenstein le chiama somiglianze di famiglia: «Non posso caratterizzare queste somiglianze meglio che con l’espressione “somiglianze di famiglia”; infatti le varie somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia si sovrappongono e s’incrociano nello stesso modo: corporatura, tratti del volto, colore degli occhi, modo di camminare, temperamento, ecc. ecc. – E dirò: i giuochi formano una famiglia »[23]. Wittgenstein pone la sua teoria delle somiglianze di famiglia e il suo ideale di filosofia come scienza descrittiva, nel solco del “principio della forma” e non del “principio della legge”. La legge e il paradigma sono l’irrigidimento della forma di vita, rappresentano una fissità che segue all’evoluzione e vengono dopo la naturalezza della vita. «Im Anfang war die Tat», questa frase del Faust amatissima da Wittgenstein, indica l’antecedenza della pratica sulla teoria, della vita sulla conoscenza; la forma di vita è, per Wittgenstein, l’Urphänomen, - citando un altro autore amatissimo dal filosofo, Goethe - l’origine non determinante da cui tutte le formazioni storiche traggono spunto.
Ma il concetto di gioco rimanda anche a quello di regola ed è questo concetto che segna il divario tra la posizione di Wittgenstein e l’ermeneutica: seguire una regola non è interpretarla, questo ritornello dovrebbe essere ripetuto fino alla nausea per comprendere la distanza tra le due posizioni, e la differente concezione di soggetto sottostante le due filosofie. Il bisogno di interpretare un linguaggio può nascere solo in colui che si trova fuori da quel gioco linguistico, non da chi è un suo attore: quando ci sentiamo a nostro agio in un gioco linguistico (in una Weltbild) non interpretiamo ma agiamo: «un’interpretazione è buona non quando non siamo in grado di interpretare ulteriormente ma quando non lo facciamo e non avvertiamo il bisogno di farlo»[24].
L’interpretazione urta, ad un certo punto, con le regole; se l’interpretazione è individuale, la regola non può che essere sociale. Wittgenstein ha decostruito il mito del ‘privato’, proprio per rivendicare il fatto che ogni uomo è agito da un’immagine del mondo ‘plurale’, tradizionale e sociale, che il suo comportamento è dettato da regole collettive: «Ciò che chiamiamo “seguire una regola” è forse qualcosa che potrebbe esser fatto da un solo uomo, una sola volta nella sua vita? (…) Non è possibile che un solo uomo abbia seguito una regola una sola volta. Non è possibile che una comunicazione sia stata fatta una sola volta, una sola volta un ordine sia stato dato e compreso, e così via. (…) Seguire una regola, fare una comunicazione, dare un ordine, giocare una partita a scacchi sono abitudini (usi, istituzioni)»[25].
Sostituendo al concetto di legge quello di regola, Wittgenstein mette in luce non solo il carattere convenzionale di quest’ultima ma l’interazione tra le regole, che è sottesa al concetto di gioco. Ogni regola ha un significato solo all’interno di un gioco e solo in relazione alle altre regole; non solo: «Make up the rules as we go along»[26], «facciamo le regole giocando», quindi può accadere che - l’esempio è di Wittgenstein – un giocatore di scacchi decida di prendere un pezzo e muoverlo oltre la scacchiera, metterlo in tasca, ecc.. Questa non è un’interpretazione delle regole del gioco degli scacchi, ma l’istituzione di una nuova regola, oppure un errore. Sarà un errore qualora nessuno userà l’eccezione da me creata, oppure  l’istituzione di una nuova regola, qualora molte persone decidano che mangiare la regina, significa mettersela in tasca. È come la morfologia di Goethe: vi sono le leggi, le variazioni e le devianze. Una variazione può divenire legge, una malformità della pianta può divenire la sua nuova costituzione. Nessuna regola può arginare in eterno la produttività della natura o della storia.
Anche l’influenza di Wittgenstein sulla cultura occidentale ha conosciuto due fasi. I wittgensteiniani di “prima” generazione furono quelli direttamente influenzati dal Tractatus logico-philosophicus : Carnap, Schlick, Waismann

[1] L. Wittgenstein, Movimenti del pensiero. Diari 1930-1932/1936-1937, tr. di M. Ranchetti e F. Tognina, Quodlibet, Macerata 1999, p. 38.
[2] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, tr. di M. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1995, § 118.
[3] L. Wittgenstein, Grammatica filosofica, tr. di M. Trinchero, La Nuova Italia, Firenze 1990, pag. 49.
[4] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, tr. di A. G. Conte, Einaudi, Torino 1989, 6.53.
[5] Ibidem.
[6] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, cit., 6.53.
[7] La parola solo è sottolineata nel manoscritto due volte.
[8] L. Wittgenstein, Lettere a Ludwig  von Ficker, a cura di G. H. von Wright, tr. di D. Antiseri, Armando, Roma 1974, pag.72.
[9] La traduzione di questa citazione è mia. Amedeo G. Conte traduce überwinden con trascendere; Wittgenstein non ci invita a trascendere le sue proposizioni, ma a superarle come si fa con una malattia; überwinden significa anche “vincere”, “avere la meglio”, e implica lo sforzo e la difficoltà connessi al superamento della cosa. La prima traduzione italiana del Tractatus logico-philosophicus di G.C.M. Colombo, utilizzava il termine ‘superare’ per rendere überwinden. Cfr. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, tr. di G.C.M. Colombo, Fratelli Bocca editore, Milano 1954, pag 285.
[10] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, cit., 6.54.
[11] Ivi, 7.
[12] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, tr. di M. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1995, § 107.
[13] Occorre ricordare che ad eccezione del Tractatus logico-philosophicus, nessuna opera verrà più pubblicata da Wittgenstein e che tutte i suoi testi  sono  dattiloscritti dettati agli alunni oppure appunti delle sue lezioni.
[14] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 138.
[15] Si confronti G. Frege, Senso e significato, in Senso, funzione e concetto, a cura di C. Penco ed E. Picardi, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 32-57.
[16] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 432.
[17] L. Wittgenstein, Libro blu, cit.,  pag, 11.
[18] L. WIttgenstein, Osservazioni filosofiche, p. 238.
[19]Cfr. B. Williams, Wittgenstein e l’idealismo, in AA.VV., Capire Wittgenstein, a cura di M. Andronico, D. Marconi, C. Penco, Marietti, Genova 1996, pag. 278.
[20] L. Wittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, cit., pag. 497.
[21] Cfr.- L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 66.
[22] Ibidem.
[23] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 67.
[24] J. Buoveresse, Wittgenstein antropologo, cit., pag. 73. Cfr. anche L. Wittgenstein, Zettel, tr. It. M. Trinchero, Einaudi, Torino 1986, § 234: «Ciò che avviene non è che questo simbolo non può più essere interpretato, bensì: io non interpreto. Non interpreto perché mi sento a mio agio nell’imagine presente».
[25] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 199.
[26] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 83.

giovedì 23 gennaio 2014

Il gatto di Schrödinger

Sono certa che, in un ipotetico esperimento di associazione mentale, alla parola Schrödinger i più colti probabilmente vi assocerebbero la parola equazione, ma la maggior parte delle persone risponderebbe gatto. Strana sorte per un premio Nobel, per uno dei padri della fisica quantistica, essere immediatamente ricordato per poche righe di un suo articolo nei quali in un «apologo semiserio»[1] egli inventa un esperimento paradossale avente per protagonista un gatto. La celebrità del quantico felino è testimoniata da film, trasmissioni radiofoniche e televisive, pièces teatrali e romanzi[2]. È  lecito presupporre, in base al temperamento anticonformista e bizzarro accreditato a Schrödinger[3], che egli sarebbe stato probabilmente divertito dalla popolarità della sua povera cavia, tuttavia è d’obbligo comprendere in modo serio e puntuale il significato di questo paradosso (definito del resto dallo stesso Schrödinger un “caso burlesco”) . Esso fu esposto in un articolo del 1935, La situazione attuale nella meccanica quantistica, pubblicata in tre numeri della rivista Naturwissenschaften; il saggio viene definito da Schrödinger una “confessione” perché egli prende coraggio  dopo la stroncatura netta data da Einstein alle recenti conseguenze della fisica quantistica e professa una idea di fisica che non rinuncia alla completezza dei modelli, alla “neutralità” (le virgolette sono d’obbligo) dell’osservatore e che nega risolutamente il fenomeno dell’entaglement. Il saggio è, in realtà, un controcanto polemico ad Heisenberg; linguisticamente è indicativa la ripetizione quasi ossessiva dell’aggettivo determinato, sintomo di un malessere profondo per quel principio che nel ’27 aveva davvero rappresentato il “giorno più buio” nella storia della fisica.
Nella nota 4 dell’articolo del ’35, Schrödinger, a proposito del cosiddetto «EPR» (articolo a sei mani ad opera di Einstein, Podolsky e Rosen) scrive: «La comparsa di questo lavoro ha fornito lo stimolo per questa mia – come dovrei chiamarla? – relazione o confessione generale?»[4]. Il lavoro era l’articolo La descrizione quantica della realtà può essere completa? pubblicata in «Physical Review» nel 1935. Questa breve memoria, si tratta di nove pagine, aveva già suscitato nello stesso anno due repliche di Bohr: Quantum Mechanics and Physical Reality in «Nature» e Can Quantum-Mechanical Description of Physical Reality be considered complete? In «Physical Review». L’incipit dell’«EPR» è più che programmatico: «In una teoria completa vi è un elemento in corrispondenza a ciascun elemento della realtà. Una condizione sufficiente per la realtà di una grandezza fisica è la possibilità di prevederla con certezza senza perturbare il sistema»[5]. È un inizio che in realtà evita di entrare nel “campo di battaglia” di Heisenberg, poiché parla fin dal secondo periodo di previsione e assenza di perturbazione, ossia proprio i due elementi giudicati chimerici per la scienza all’indomani della relazione di incertezza. Che la posizione di Einstein sia decisamente conservatrice, lo si evince pochi periodi dopo: «Ogni serio esame di una teoria fisica presuppone la distinzione fra la realtà obiettiva, che è indipendente da qualsiasi teoria, e i concetti fisici con cui la teoria stessa opera. Questi concetti si presuppone corrispondano alla realtà obiettiva e con essi noi ci rappresentiamo quella realtà»[6].
Come già esposto sopra, è proprio attorno al concetto di realtà che i “due re” schierarono il loro esercito[7]. Nella sua Autobiografia scientifica, Einstein scrive in proposito: «la fisica è un tentativo di afferrare concettualmente la realtà, quale la si concepisce indipendentemente dal fatto di essere osservata. In questo senso si parla di “realtà fisica”. Prima dell’avvento della fisica quantica, non c’era alcun dubbio in proposito: nella teoria di Newton, la realtà era rappresentata da punti materiali nello spazio e nel tempo; nella teoria di Maxwell, dal campo nello spazio e nel tempo. Nella meccanica quantica, la rappresentazione della realtà non è così facile»[8].
Nella memoria di Einstein, come in quella di Schrödinger, la «condizione di completezza» è un criterio essenziale, di cui la meccanica quantistica è sprovvista. Tale condizione è uno dei due criteri, per Einstein, di accettabilità della teoria; l’altro è la correttezza stimata in base all’accordo fra le conclusioni della teoria e l’esperienza. Einstein nell’EPR aveva espresso un forte credo empirista, dichiarando che solo l’esperienza – che in fisica assume la forma di esperimenti e misure – consente di inferire qualcosa sul reale: «Gli elementi della realtà fisica non possono essere determinati da considerazioni filosofiche a priori, ma debbono essere trovati ricorrendo ai risultati di esperimenti e di misure»[9]. Einstein, come anche Schrödinger, non commette l’ingenuità di dare per scontato il concetto di realtà (Schrödinger scrive: «Naturalmente non siamo così ingenui da credere che in questo modo si possa scoprire come vanno realmente le cose nel mondo») ma Einstein sul fatto che proprio tale concetto sia il corno del dilemma, scrivendo: «tuttavia, per i nostri scopi, non è necessario dare una definizione esauriente di realtà»[10]. Ma il modo in cui Einstein prosegue ci indica il suo arroccamento in una posizione oggettivista: «Se si è in grado di prevedere con certezza (cioè con probabilità uguale ad uno), il valore di una grandezza fisica senza perturbare in alcun modo un sistema, allora esiste un elemento di realtà fisica corrispondente a questa grandezza fisica»[11]. È evidente che ciò è una netta contrapposizione ad Heisenberg, perché la realtà, sebbene in modo giudicato non “necessario” ma “sufficiente” – è un’idea definita a partire dalla prevedibilità e dall’assenza di perturbazioni. Ciò che Einstein prima e Schrödinger poi contestano è che «quando il momento di una particella è noto, la sua posizione non possiede realtà fisica»[12].  La non commutabilità degli operatori corrispondente a due grandezze fisiche, in meccanica quantistica, fa sì che la conoscenza precisa di una precluda la conoscenza precisa dell’altra. Ciò determina per Einstein, e per Schrödinger, l’incompleta descrizione quantica della realtà, che può e deve essere corretta, in quanto due sono le possibilità per Einstein: o la descrizione è incompleta o le due grandezze fisiche non possono essere simultaneamente reali, «infatti se esse avessero realtà simultanea, e quindi valori definiti, questi valori, in base alla condizione di completezza, entrerebbero nella descrizione completa»[13]. L’incompletezza della descrizione quantica della realtà fisica fornita dalle funzioni d’onda non preclude, così si conclude l’EPR, il fatto che una descrizione esiste: «Noi comunque crediamo che una teoria di questo tipo sia possibile»[14]. Ancora una volta il termine credere gioca un ruolo fondamentale. Lo stesso termine ritorna nell’opera Come io vedo il mondo: «Non posso fare a meno di confessare che io non accordo a questa interpretazione che un significato provvisorio. Credo ancora alla possibilità di un modello della realtà, vale a dire di una teoria che presenti le cose stesse e non soltanto la probabilità della loro apparizione»[15]. La ricerca di una teoria di campo unificato, tanto per Einstein quanto per Schrödinger, rappresentò la speranza di potere abbandonare in fisica la dimensione probabilistica[16].
Questo lungo excursus serve a contestualizzare il celebre esperimento ideale del gatto, così illustrato: «Si chiude un gatto in una camera blindata, insieme alla seguente macchina infernale (che bisogna mettere al sicuro dalla portata diretta del gatto): in un contatore Geiger si trova una minuscola quantità di sostanza radioattiva, tanto poca che nel corso di un’ora forse decadrà uno degli atomi, ma forse anche, con altrettante probabilità, nessuno; se ne decade uno, il contatore reagisce e aziona tramite un relais un martelletto che frantuma un’ampolletta con acido prussico. Quando si è lasciato a se stesso per un’ora tutto il sistema, ci si dirà che il gatto vive ancora se nel frattempo non è decaduto nessun atomo. Il primo atomo decaduto l’avrebbe avvelenato. La funzione ψ dell’intero sistema esprimerebbe dunque che in essa sono mescolati o confusi in parti uguali gatto vivo e gatto morto (sit venia verbo). Ciò che è tipico in questi casi è che una indeterminazione originariamente limitata a livello atomico, si traduce in una indeterminazione palpabile (CINI SCRIVE MACROSCOPICA) che può essere risolta con l’osservazione diretta. Questo ci impedisce di far valere ingenuamente un modello vago come immagine della realtà. In sé, esso non conterrebbe niente di poco chiaro o di contraddittorio. C’è differenza tra una fotografia mossa o sfocata e una che ritrae nuvole e lembi di nebbia»[17].
Il problema che Schrödinger pose, nella bizzarra forma del paradosso del gatto, è se la meccanica quantistica potesse valere come modello per la spiegazione anche di corpi macroscopici, oppure se per questi ultimi fosse ancora possibile utilizzare variabili con valori determinati (cioè variabili classiche). «Per molti anni la comunità dei fisici si è divisa sulla risposta da dare a questa domanda. La maggioranza, convinta che la meccanica quantistica rappresenti nel modo più completo e fedele le proprietà della materia a livello microscopico, ma al tempo stesso persuasa che la meccanica classica funziona bene per i corpi macroscopici, ha adottato la soluzione proposta da Bohr che consiste […] nel postulare l’esistenza di oggetti classici, allo scopo di definire in modo non ambiguo le proprietà degli oggetti classici, allo scopo di definire in modo non ambiguo le proprietà degli oggetti quantistici. Una minoranza agguerrita invece, ha deciso di portare alle estreme conseguenze questa risposta negativa, fino a concludere che è soltanto la coscienza dell’osservatore che può risolvere con un’alternativa binaria (vero o falso) l’ambiguità insita nella descrizione quantistica della realtà fisica. Una esigua minoranza infine, fra i quali spiccano figure come Einstein e Schrödinger, colse nella risposta negativa che gli altri davano una dimostrazione della inadeguatezza e della incompletezza della descrizione della realtà fornita dalla meccanica quantistica»[18].
La questione dell’esperimento mentale era quella della sovrapposizione di stati, punto cardine della meccanica quantistica. La funzione d’onda (ψ) è un oggetto puramente matematico, designante un ampiezza di probabilità, il cui significato è differente  dalla normale statistica. Nella statistica classica, infatti, non vi è interferenza fra le probabilità di due eventi indipendenti: se può accadere o l’evento A o l’evento B, per la statistica classica, abbiamo il 50% di probabilità per entrambe le variabili.  In meccanica quantistica, invece, non solo le due variabili non si escludono a vicenda, ma non si parla più di singole variabili ma di ampiezze di probabilità che si combinano fra loro, senza escludersi. In tal modo, la densità di probabilità si ottiene facendo il modulo quadrato della combinazione (ψ2)  e avvengono effetti di interferenza che alterano in modo consistente le distribuzioni  di probabilità originali. Einstein ed Infeld chiariscono così questo nuovo tipo di statistica: «Se volessimo descrivere il movimento di ogni particella gassosa dovremmo cominciare col determinare gli stati iniziali, vale a dire posizione e velocità di tutte le particelle. Ma, anche ammesso che ciò fosse possibile, i calcoli richiederebbero più tempo di un’intera vita umana, causa l’enorme numero di particelle da prendere in considerazione. Se poi volessimo ricorrere ai noti metodi della meccanica classica per calcolare le posizioni finali di tutte le particelle le difficoltà diventerebbero insormontabili. Teoricamente sarebbe dunque possibile valersi dello stesso metodo seguito per i moti planetari, ma in pratica ciò non condurrebbe a nulla. Ci vediamo così nella necessità di ricorrere al metodo statistico.  Questo  metodo ci dispensa bensì dalla conoscenza  degli stati iniziali, ma ciò che ci fa conoscere del sistema in un dato istante è incompleto, cosicché non possiamo precisarne né il passato né il futuro. La sorte delle singole particelle di gas non ci riguarda più. Il nostro problema assume un altro carattere. Così, ad esempio, dobbiamo astenerci dal chiedere: Qual è la velocità di ogni particella in questo istante? Per contro ci è lecito domandare: Quante sono le particelle aventi  velocità  comprese fra trecento e trecentotrenta metri al secondo? Dobbiamo insomma disinteressarci degli individui, cercando invece di determinare valori medi caratterizzanti l’intero aggregato. Ragionamenti di carattere statistico hanno senso soltanto allorché il sistema considerato si compone di un grande numero d’individui»[19]. Il metodo statistico, quindi, non ci dà la possibilità di predire l’esatto comportamento di un singolo individuo. Ciò è lapalissiano, a dire il vero, perché sappiamo benissimo che se conosciamo, ad esempio, l’età media della popolazione femminile italiana, non possiamo predire con esattezza quanto vivrà la signora x. Il discorso, però, appare “catastrofico” nelle scienze fisiche, perché in quell’ambito eravamo abituati all’idea di predizione esatta di ogni singolo  comportamento di un evento studiato. Le leggi statistiche non si possono applicare a singoli componenti, ma solo a grandi aggregati. «Le leggi della fisica quantistica sono di carattere statistico. Ciò significa che esse non concernono un singolo sistema, bensì un aggregato di sistemi identici. Tali leggi non possono venire comprovate con misure effettuate su un solo individuo, ma unicamente con una serie di misure ripetute»[20].
Vi è un momento in cui tutta l’ampiezza di probabilità, nell’articolo in questione Schrödinger parla di catalogo delle aspettative, acquista una posizione determinata: il momento della misurazione. Il problema della misura in meccanica quantistica consiste nel fatto che, mentre in meccanica classica se su un sistema si è misurato un risultato R, siamo certi che tale sistema possedesse risultato R anche prima della misurazione, lo stesso non accade in fisica quantistica[21]. Il momento della misurazione costituisce la riduzione o il collasso del pacchetto d’onde, cioè il passaggio dalla molteplici potenzialità all’unica “realtà” accertata. Esso costituisce, come sostiene Cini, «uno dei punti più controversi del dibattito sull’interpretazione della meccanica quantistica»[22] e il paradosso del gatto si vuole incuneare proprio in questa controversia. Il gatto, nell’esperimento mentale di Schrödinger, è vivo e morto prima della misura. Quando Schrödinger dice vivo/morto non intende, secondo la classica concezione statistica, che abbiamo il 50% di possibilità di trovare il gatto vivo e 50% di trovarlo morto, egli scrive «La funzione ψ dell’intero sistema esprimerebbe dunque che in essa sono mescolati o confusi in parti uguali gatto vivo e gatto morto».  Il momento in cui si coagulano queste  parti confuse è l’osservazione diretta che, come dice Schrödinger, «ci impedisce di far valere ingenuamente un modello confuso come immagine della realtà».
Il momento della riduzione del pacchetto d’onda, dicevamo, è stato oggetto di varie interpretazioni: ci si è domandati se per osservazione diretta si intende l’interazione del sistema quantistico con lo strumento di misura, oppure la registrazione di ciò che lo strumento di misura ha registrato da parte del soggetto. Nel secondo caso avremmo una concezione soggettivistica (portata avanti, ad esempio, da von Neumann) secondo la quale l’attuazione  di una sola fra le molteplici potenzialità avviene solo con il contatto con un’entità non fisica, la coscienza dell’osservatore, che quindi sfugge alle leggi universali della meccanica quantistica.  Ciò, tuttavia, credo sia profondamente differente dal senso che Schrödinger voleva cogliere dal suo “caso burlesco”. Egli non dà alcuna interpretazione psicologica o introspettiva al problema dell’osservatore. In un articolo del 1953 dedicato a De Broglie, infatti, Schrödinger scriveva: «Deve aver procurato a De Broglie lo stesso shock e la stessa delusione che ha dato a me, il sapere che del fenomeno ondulatorio era stata proposta una sorta di interpretazione trascendentale, quasi psichica, che la maggioranza dei teorici di punta sostenne immediatamente come l’unica conciliabile con gli esperimenti; e che è ora divenuta il credo ortodosso, accettata da quasi tutti, con poche notevoli eccezioni»[23].
Non solo nella vulgata  romanzesca e cinematografica, ma spesso anche nella storia degli effetti accademica e colta, ci si è adagiati su una ‘intrigante’ confusione, che nasce «dall’uso sconsiderato dei termini osservatore, osservazione, misura, che portano a una continua mescolanza non solo fra piano ontologico e piano epistemologico del discorso, ma addirittura introducono arbitrariamente in esso un elemento psicologico che certamente non può avere alcuna rilevanza nei confronti del primo […] e una rilevanza assai mediata rispetto al secondo»[24].
Bisogna assolutamente contestualizzare il paradosso all’interno dell’articolo e con le linee metodologiche in esso esposte. Queste linee sono volte a mostrare l’incompletezza della meccanica quantistica perché la funzione d’onda, in quanto «catalogo d’aspettative» non riesce a spiegare e a prevedere il comportamento di un oggetto, una volta che questo abbia subito una evoluzione temporale che ha causato un entaglement con lo strumento di misurazione. Il punto a cui Schrödinger giunge, a dire il vero non del tutto in sintonia con l’articolo di Einstein, è uno iato tra il modello e il reale. Egli riconosce esplicitamente che non è possibile parlare di realtà in modo atomistico, come collezione di unità che preservano individualità e proprietà isolatamente. Il termine “realtà oggettiva” non può essere più attribuito ad un singolo oggetto e «sarebbe opportuno, per evitare ambiguità, non parlare nemmeno, in astratto, di un suo stato fisico. Il suo stato fisico oggettivo è infatti definibile soltanto se si prende in considerazione congiuntamente quella parte della realtà circostante con la quale esso interagisce […] La riduzione del pacchetto d’onde è quindi soltanto uno stratagemma  verbale per non dover parlare di M [strumento di misura, n.d.a]. Fare di essa addirittura un mezzo per creare la realtà è soltanto paranoia»[25]. La funzione d’onda, cioè, non è una proprietà del sistema quantistico, che in maniera deterministica ne regola l’evoluzione temporale; essa è invece una rappresentazione che noi abbiamo di esso. In tal modo, questa è ad esempio la conclusione di Cini, non ha senso dire che la rappresentazione interferisce con la nostra rappresentazione: cioè, fin dal principio il concetto di modello abbandona qualsiasi pretesa di oggettività, spostandosi dal terreno dell’adaequatio a quello della coerenza interna.
L’ambiguità di Schrödinger non ci aiuta di certo a districarci in questa matassa ed anche l’esempio del gatto, probabilmente, non è stato uno dei più felici per evitare fraintendimenti.  Trovo indubbio, tuttavia, leggere la sua riflessione ne La situazione attuale della fisica quantistica come una discussione non sull’ontologia o sulla gnoseologia – in altri importanti momenti della sua opera Schrödinger si occupa di questo – ma sui modelli che la scienza  crea per interpretare il mondo. Sono temi, come già ricordato, che erano già stati affrontati da Hertz (Principien der Mechanik del 1894) e da Boltzmann (Über der Entwicklung der Methoden der Theoretischen Physik in neurer Zeit, del 1898). Attraverso la mediazione del proprio maestro Exner, Schrödinger si collega a questa tradizione per sostenere «il salvataggio delle caratteristiche di continuità e causalità a livello teoorico, e la rinuncia ad esse sul piano empirico, a costo di introdurre una frattura in quella corrispondenza fra enti teorici ed osservabili che Einstein aveva richiesto nel suo criterio di completezza»[26].
C’è chi, come D’Agostino, legge questa concezione schrödingeriana di Bild come una coerente integrazione della teoria ondulatoria giovanile, un tentativo di salvare il continuo. Non quindi una frattura tra il giovane Schrödinger più aperto e “progressista” e lo Schrödinger maturo arroccato su posizioni reazionarie, ma  una vita speculativa spesa a favore dell’idea che la continuità sia il presupposto irrinunciabile della scienza. Talmente irrinunciabile che è preferibile attuare una frattura tra il reale e la sua spiegazione piuttosto che accettare una spiegazione discontinua, lacunosa, confusa. Per suffragare questa interpretazione, D’Agostino cita il discorso che Schrödinger pronunciò nel 1933 per il conferimento del Nobel: «In via di principio non è affatto una cosa nuova richiedere che la scienza esatta miri, in ultima analisi, solo alla descrizione di ciò che è veramente osservabile. La vera domanda è solo se si dovrà, d’ora in poi, rinunciare a collegare la descrizione con una chiara ipotesi sulla vera costituzione dell’universo. Molti vogliono esprimere la loro rinuncia fin da adesso. Ma io credo che con ciò si renda il problema un po’ troppo facile»[27]. Non è difficoltoso scorgere in questi “rinunciatari” i fisici della scuola di Copenhagen, ai quali Schrödinger rimprovera – in tutta la sua opera – l’interpretazione della conoscenza fisica come interazione fra soggetto e oggetto, l’accettazione della complementarità di due spiegazioni e l’accettazione di una descrizione incompleta del mondo materiale. Nell’articolo del ’35 Schrödinger vuole mostrare che anche accettando il principio di indeterminazione di Heisenberg è possibile e doveroso esigere una descrizione completa del reale. Questa posizione viene presentata come un appello per salvare il nucleo centrale della scienza: accettare le posizioni della scuola di Copenhagen, secondo Schrödinger, «equivarrebbe a distruggere volontariamente le condizioni stesse che sono richieste da una buona teorizzazione, “il compimento dei fatti con il pensiero»[28]. Il principio di continuità, secondo Schrödinger, è il quadro ineludibile della scienza, se viene meno questo la stessa intelligibilità della natura viene meno.
La celebrità del paradosso del gatto è scaturita, a mio avviso, da una interpretazione realistica del discorso schrödingeriano, la quale ha sollevato problemi inquietanti e soluzioni spesso fantascientifiche o deterministiche (ad esempio con l’accettazione delle variabili nascoste). Porre la questione in termini metodologici, ossia accettare che la scienza descrive non la realtà ma un insieme di correlazioni tra le nostre percezioni sensoriali e i modelli teorici elaborati per spiegare tali percezioni, ci avvicina maggiormente alla posizione dell’articolo.

[1] M. Cini, Vita morte e miracoli del gatto di Schrödinger, cit., p. 77.
[2] Solo alcuni esempi: Il gatto che attraversa i muri di Robert A. Heinlein. Romanzo di fantascienza in cui è presente un gatto "delocalizzato" in grado di passare dall'una all'altra parte del muro grazie a un balzo quantico; nel romanzo di Ian McEwan Sabato, viene citato il paradosso; Paradosso del gatto di Schrödinger è anche il titolo di un romanzo del pittore Lodovico Mancusi, edizioni Il Filo, 2008; "Il gatto di Schrödinger" è il titolo di un racconto contenuto nella raccolta di Ursula K. Le Guin La rosa dei ventiIl gatto di Schrödinger era il nome di una trasmissione radiofonica della Radiotelevisione Svizzera in lingua italiana a cura di Vincenzo Masotti, che prendeva il paradosso come simbolo delle incertezze date dalla ricerca scientifica; al cinema : il paradosso del gatto è citato nel film A Serious Man dei fratelli Coen; nelle serie TV in una puntata di Star Trek: Voyager ; nella puntata n. 19 della quarta serie di NCIS, dal titolo 'Scrupoli', nella serie televisiva NUMB3RS, prima stagione, ottava puntata. A ciò si aggiungono citazioni in fumetti giapponesi, italiani e americani. Con l’avvento della rete, la celebrità del gatto sembra essere aumentata in modo esponenziale: fumetti, vignetti, addirittura magliette e gadgets raffigurano Schrödinger in compagnia di gatti stilizzati e spesso, a ragione, terrorizzati.
[3] Si cfr. la biografia di W. Moore, Schrödinger: Life and Thought, Cambridge University Press 1989. In quest’opera viene riportato, fra gli altri, il giudizio di Max Born: «His private life seemed strange to burgeois people like ourselves. But all this does not matter. He was a most lovable person, independent, amusing, temperamental, kind and generous, and he had a most perfect and efficient brain».
[4] La traduzione è mia.
[5] A. Einstein - B. Podolsky – N. Rosen, La descrizione quantica della realtà può essere considerate completa?, in Opere scelte, a cura di E. Bellone, Bollati Boringhieri, Torino 1988, p. 374.
[6] Ivi, p. 375.
[7] Sulla polemica Bohr-Einstein riguardo il concetto di realtà, cfr. G. Gembillo, Da Einstein a Mandelbrot, cit., pp. 37-40.
[8] A. Einstein - B. Podolsky – N. Rosen, La descrizione quantica della realtà può essere considerate completa?, cit., p. 375.
[9] Ivi, p. 375.
[10] Ibidem.
[11] Ibidem. In corsivo nel testo.
[12] Ivi, p. 377.
[13] Ibidem.
[14] Ivi, p. 382.
[15] A. Einstein, Come io vedo il mondo, tr. di R. Valori, Newton Compton, Roma 1990, p. 47.
[16] Su ciò cfr. G. Giordano, Da Einstein a Morin, cir., pp. 177- 202.
[17] E. Schrödinger, Die gegenwärtige Situation in der Quantenmechanik, in «Die Naturwissenschaften», November-Dezember 1935. La presente e le deguenti traduzioni sono mie. Per un commento al valore e al significato del presente paradosso si cfr. M. Cini, Vita morte e miracoli del gatto di Schrödinger, in B.Bertotti - U.Curi (a cura di), Erwin Schrödinger scienziato e filosofo, Il Poligrafo, Padova 1994, pp. ????. e C. Garola, Vita e morte del gatto di Schrödinger, in I. Tassani (a cura di), Quanti Copenhagen? Bohr, Heisenberg e le interpretazioni della meccanica quantistica, Società Editrice «Il Ponte vecchio», Cesena 2004, pp.????? Per una illustrazione più divulgativa si legga S. Ortoli-J.P. Pharabod, Il cantico dei quanti, tr. di E. Castelli, Theoria, Roma-Napoli 1991, pp. 88-93.
[18] M. Cini, Vita morte e miracoli del gatto di Schrödinger, in B.Bertotti - U.Curi (a cura di), Erwin Schrödinger scienziato e filosofo, cit., p. 79.
[19] A. Einstein – L. Infeld, L’evoluzione della fisica, tr. di A. Graziadei, Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp. 261-262.
[20] Ivi, p. 262.
[21] Su queste tematiche è molto esplicativo il saggio di G. C. Ghirardi – A. Rimini – T. Weber, Meccanica quantistica e descrizione della realtà fisica, in B. Bertotti - U. Curi, e Erwin Schrödinger scienziato filosofo, cit., pp.  111-123.
[22] M. Cini, Vita morte e  miracoli del gatto di Schrödinger, cit., p. 81.
[23] E. Schrödinger, The meaning of wave mechanic, in Louis De BrogliePhysicien et Penseur, Michel, Paris 1953.
[24] M. Cini, Vita morte e miracoli del gatto di Schrödinger, cit., p. 84.
[25] Ivi, p. 89.
[26] S. D’Agostino, Schrödinger: scienza e Wissenschaft, in B. Bertotti – U. Curi, Erwin Schrödinger scienziato e filosofo, cit., p. 106.
[27] Citato in ivi, pp. 107-108.
[28] Ivi, p. 107.

martedì 21 gennaio 2014

Il canto d'amore di J. Alfred Prufrock




S'io credesse che mia risposta fosse
A persona che mai tornasse al mondo,
Questa fiamma staria senza più scosse.
Ma perciocché giammai di questa fondo
Non tornò vivo alcun, s'i' odo il vero,
Senza tema d'infamia ti rispondo.


Allora andiamo, tu ed io,
Quando la sera si stende contro il cielo
Come un paziente eterizzato disteso su una tavola;
Andiamo, per certe strade semideserte,
Mormoranti ricoveri
Di notti senza riposo in alberghi di passo a poco prezzo
E ristoranti pieni di segatura e gusci d'ostriche;
Strade che si succedono come un tedioso argomento
Con l'insidioso proposito
Di condurti a domande che opprimono...
Oh, non chiedere « Cosa? »
Andiamo a fare la nostra visita.

Nella stanza le donne vanno e vengono
Parlando di Michelangelo.

La nebbia gialla che strofina la schiena contro i vetri,
Il fumo giallo che strofina il suo muso contro i vetri
Lambì con la sua lingua gli angoli della sera,
Indugiò sulle pozze stagnanti negli scoli,
Lasciò che gli cadesse sulla schiena la fuliggine che cade dai camini,
Scivolò sul terrazzo, spiccò un balzo improvviso,
E vedendo che era una soffice sera d'ottobre
S'arricciolò attorno alla casa, e si assopì.

E di sicuro ci sarà tempo
Per il fumo giallo che scivola lungo la strada
Strofinando la schiena contro i vetri;
Ci sarà tempo, ci sarà tempo
Per prepararti una faccia per incontrare le facce che incontri;
Ci sarà tempo per uccidere e creare,
E tempo per tutte le opere e i giorni delle mani
Che sollevano e lasciano cadere una domanda sul tuo piatto;
Tempo per te e tempo per me,
E tempo anche per cento indecisioni,
E per cento visioni e revisioni,
Prima di prendere un tè col pane abbrustolito

Nella stanza le donne vanno e vengono
Parlando di Michelangelo.

E di sicuro ci sarà tempo
Di chiedere, « Posso osare? » e, « Posso osare? »
Tempo di volgere il capo e scendere la scala,
Con una zona calva in mezzo ai miei capelli -
(Diranno: « Come diventano radi i suoi capelli! »)
Con il mio abito per la mattina, con il colletto solido che arriva fino al mento,
Con la cravatta ricca e modesta, ma asseríta da un semplice spillo -
(Diranno: « Come gli son diventate sottili le gambe e le braccia! »)
Oserò
Turbare l'universo?
In un attimo solo c'è tempo
Per decisioni e revisioni che un attimo solo invertirà

Perché già tutte le ho conosciute, conosciute tutte: -
Ho conosciuto le sere, le mattine, i pomeriggi,
Ho misurato la mia vita con cucchiaini da caffè;
Conosco le voci che muoiono con un morente declino
Sotto la musica giunta da una stanza più lontana.
Così, come potrei rischiare?
E ho conosciuto tutti gli occhi, conosciuti tutti -
Gli occhi che ti fissano in una frase formulata,
E quando sono formulato, appuntato a uno spillo,
Quando sono trafitto da uno spillo e mi dibatto sul muro
Come potrei allora cominciare
A sputar fuori tutti i mozziconi dei miei giorni e delle mie abitudini? .
Come potrei rischiare?
E ho già conosciuto le braccia, conosciute tutte -
Le braccia ingioiellate e bianche e nude
(Ma alla luce di una lampada avvilite da una leggera peluria bruna!)
E' il profumo che viene da un vestito
Che mi fa divagare a questo modo?
Braccia appoggiate a un tavolo, o avvolte in uno scialle.
Potrei rischiare, allora?-
Come potrei cominciare?

. . . . . . . . . . . .

Direi, ho camminato al crepuscolo per strade strette
Ed ho osservato il fumo che sale dalle pipe
D'uomini solitari in maniche di camicia affacciati alle finestre?...

Avrei potuto essere un paio di ruvidi artigli
Che corrono sul fondo di mari silenziosi

. . . . . . . . . . . . .

E il pomeriggio, la sera, dorme così tranquillamente!
Lisciata da lunghe dita,
Addormentata... stanca... o gioca a fare la malata,
Sdraiata sul pavimento, qui fra te e me.
Potrei, dopo il tè e le paste e, i gelati,
Aver la forza di forzare il momento alla sua crisi?
Ma sebbene abbia pianto e digiunato, pianto e pregato,
Sebbene abbia visto il mio capo (che comincia un po' a perdere i capelli)
Portato su un vassoio,
lo non sono un profeta - e non ha molta importanza;
Ho visto vacillare il momento della mia grandezza,
E ho visto l'eterno Lacchè reggere il mio soprabito ghignando,
E a farla breve, ne ho avuto paura.

E ne sarebbe valsa la pena, dopo tutto,
Dopo le tazze, la marmellata e il tè,
E fra la porcellana e qualche chiacchiera
Fra te e me, ne sarebbe valsa la pena
D'affrontare il problema sorridendo,
Di comprimere tutto l'universo in una palla
E di farlo rotolare verso una domanda che opprime,
Di dire: « lo sono Lazzaro, vengo dal regno dei morti,
Torno per dirvi tutto, vi dirò tutto » -
Se una, mettendole un cuscino accanto al capo,
Dicesse: « Non è per niente questo che volevo dire.
Non è questo, per niente. »
E ne sarebbe valsa la pena, dopo tutto,
Ne sarebbe valsa la pena,
Dopo i tramonti e i cortili e le strade spruzzate di pioggia,
Dopo i romanzi, dopo le tazze da tè, dopo le gonne strascicate sul pavimento
E questo, e tante altre cose? -
E' impossibile dire ciò che intendo!
Ma come se una lanterna magica proiettasse il disegno dei nervi su uno schermo:
Ne sarebbe valsa la pena
Se una, accomodandosi un cuscino o togliendosi uno scialle,
E volgendosi verso la finestra, dicesse:
« Non è per niente questo,
Non è per niente questo che volevo dire. »

. . . . . . . . . . .

No! lo non sono il Principe Amleto, né ero destinato ad esserlo;
Io sono un cortigiano, sono uno
Utile forse a ingrossare un corteo, a dar l'avvio a una scena o due,
Ad avvisare il principe; uno strumento facile, di certo,
Deferente, felice di mostrarsi utile,
Prudente, cauto, meticoloso;
Pieno di nobili sentenze, ma un po' ottuso;
Talvolta, in verità, quasi ridicolo -
E quasi, a volte, il Buffone.

Divento vecchio... divento vecchio...
Porterò i pantaloni arrotolati in fondo.

Dividerò i miei capelli sulla nuca? Avrò il coraggio di mangiare una pesca?
Porterò pantaloni di flanella bianca, e camminerò sulla spiaggia.
Ho udito le sirene cantare l'una all'altra.

Non credo che canteranno per me.

Le ho viste al largo cavalcare l'onde
Pettinare la candida chioma dell'onde risospinte:
Quando il vento rigonfia l'acqua bianca e nera.

Ci siamo troppo attardati nelle camere del mare
Con le figlie del mare incoronate d'alghe rosse e brune
Finché le voci umane ci svegliano, e anneghiamo.





T.S. Eliot