martedì 28 gennaio 2014

presentazione di Ludwig WIttgenstein

«Se il mio nome sopravviverà sarà solo come il terminus ad quem della grande filosofia occidentale. Un po’ come il nome di colui che ha bruciato la biblioteca di Alessandria»[1]. In tale modo, in una pagina di diario del 1930, Ludwig Wittgenstein pensava a se stesso e alla propria filosofia. Consapevole di avere avuto un ruolo essenzialmente distruttivo, critico e soprattutto – a suo avviso – finale nella storia del pensiero occidentale. Né tale ruolo meramente ‘negativo’ gli sembrava un rimpicciolimento dell’importanza della propria opera, poichè lo giudicava una propedeutica ad un nuovo pensare: «Da che cosa acquista importanza la nostra indagine, dal momento che sembra soltanto distruggere tutto ciò che é interessante, cioè grande e importante? (Sembra distruggere, per così dire, tutti gli edifici, lasciandosi dietro soltanto rottami e calcinacci.) Ma quelli che distruggiamo sono soltanto edifici di cartapesta, e distruggendoli sgombriamo il terreno del linguaggio sul quale essi sorgevano»[2].
Ciò che Wittgenstein auspicava, con la propria opera, era 1) sgomberare il campo dagli pseudo problemi che avevano avvilito il pensiero occidentale – essenzialmente problemi metafisici legati alla ricerca di un’essenza stabile ed occulta, sottostante il mondo fenomenico– causati da un fraintendimento del nostro linguaggio; 2) fornire un metodo che servisse da guida per evitare ulteriore confusione e per restituire l’uomo alla naturalezza ed immediatezza del mondo della vita.
In questo secondo aspetto, si coglie in contro luce la finalità etica della propria filosofia, sebbene di un’etica “paradossale” in quanto si risolve in un’agire che non può formalizzarsi in alcun canone o dettato morale, poiché tutta la filosofia di Ludwig Wittgenstein è segnata dalla convinzione che l’etica sia indicibile. Parlare di BeneBelloEssereAnima, ci ricondurrebbe in quel pantano di confusione e insensatezza linguistica che ha caratterizzato duemila anni di pensiero occidentale; Wittgenstein, invece, vuole che dopo la propria filosofia risulti impossibile porre gli interrogativi alla stessa maniera in cui si è sempre fatto: «i problemi vengono dissolti nel vero senso della parola - come una zolletta di zucchero nell’acqua»[3].
Abituati ad una filosofia sistematica, nella quale si costruisce, si integra, si accordano saperi e teorie, si innalza un edificio coerente ed esaustivo sul reale, l’idea deflattiva di filosofia proposta da Wittgenstein può apparire debole, quasi umile e priva di ambizione. Eppure, egli la considera la terapia per restituire all’uomo occidentale quella semplicità e quella “pace nei pensieri”, che proprio l’impulso velleitario di costruzione sistematica e di spiegazione omnicomprensiva gli aveva tolto. «Certo, allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta»[4], così nel Tractatus, con un motteggiare che ricorda da vicino la scrittura Zen, Wittgenstein rivendica il ruolo radicale del proprio pensiero: «Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: Nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale - dunque qualcosa che con la filosofia nulla ha che fare - , e poi, ogni volta che un altro voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro - egli non avrebbe la sensazione che noi gli insegniamo filosofia - , eppure esso sarebbe l’unico metodo rigorosamente corretto»[5].
Nonostante nello spazio di poche pagine sia più efficace dare i tratti unificanti e coerenti dell’intero percorso wittgensteiniano, non è tuttavia possibile – a meno di  imperdonabili omissioni e conseguente travisamento – fornire del filosofo austriaco un ritratto privo di contraddizioni, che non tenga conto, cioè, della svolta che Wittgenstein ha impresso alla propria filosofia intorno agli anni  ’30. Tale svolta sta alla base della classica distinzione, presente in quasi tutta la storiografia filosofica che lo riguarda, fra il primo e il secondo Wittgenstein.
Con la dizione primo Wittgenstein, ci si riferisce essenzialmente al Tractatus logico-philosophicus, e ad alcuni piccoli scritti coevi (Alcune osservazioni sulla forma logica, Note sulla logica, Note dettate a G.E. Moore in Norvegia, Quaderni 1914-1916). In queste opere non solamente è palese la filiazione, sebbene polemica ed “eretica”, delle proprie problematiche dalla logica di Bertrand Russell (che scrisse l’introduzione all’opera) e di Gottlob Frege,  ma è ancora profonda la convinzione che sia possibile con un taglio netto recidere ciò che può dirsi chiaramente (il Logico) da ciò che non può dirsi affatto (il Mistico).  Nel Tractatus è ancora forte l’idea che sia possibile un linguaggio chiaro e senza sfumature, quello logico-matematico, che ci preservi dalle confusioni metafisiche e che riposi su una perfetta adaequatio tra nome e oggetto. L’ontologia del Tractatus logico-philosophicus, sebbene in modo già controverso, è una sorta di paradossale “atomismo organicista”, in cui è postulata l’esistenza del Semplice, dell’elemento singolo che compone la realtà e, in modo speculare, il linguaggio.  Sebbene il titolo del libro sia un lampante richiamo a Spinoza (il Tractatus ethico-politicus), Wittgenstein non accetta da Spinoza l’idea che il linguaggio more geometrico possa essere applicato anche all’etica. Quest’ultima rientra, insieme all’estetica e alla credenza religiosa, nell’insondabile sfera del Mistico, di ciò che si mostra ma che non si può dire. «Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: Nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale - dunque qualcosa che con la filosofia nulla ha che fare - , e poi, ogni volta che un altro voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro - egli non avrebbe la sensazione che noi gli insegniamo filosofia - , eppure esso sarebbe l’unico metodo rigorosamente corretto»[6]. Andando contro l’idea tradizionale che la filosofia sia quella scienza che fornisce, se non le risposte, almeno le domande fondamentali all’uomo, Wittgenstein ritiene invece che il fine della filosofia sia la cessazione di ogni domanda. In una fondamentale quanto vitatissima lettera all’amico von Ficker, Wittgenstein presenta così il Tractatus logico-philosophicus: «il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto, ed inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante. Ad opera del mio libro, l’etico viene delimitato, per così dire, dall’interno; e sono convinto che l’etico è da delimitare rigorosamente solo[7] in questo modo. In breve credo che: tutto ciò su cui molti oggi parlano a vanvera, io nel mio libro l’ho messo saldamente al suo posto, semplicemente col tacerne»[8]. La filosofia non costruisce più sul terreno della metafisica e dell’etica cattedrali sistematiche, ma innalza dei muri che impediscono all’uomo di entrarvi maldestramente con la sua logica totalmente inadeguata, atta a descrive il come e non a spiegare il cosa. Il primo Wittgenstein paragona il proprio metodo filosofico ad una scala: «Le mie proposizioni illuminano così: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse - su esse - oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettare la scala, dopo esservi salito). Egli deve superare[9] queste proposizioni; è allora che egli vede rettamente il mondo»[10].
La filosofia è un metodo che ci porta a qualcosa (una scala) non un’ontologia o una dottrina su qualcosa. Date queste premesse, la prima fase del percorso wittgensteiniano, si conclude con la celebre frase: «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere»[11]. Occorre tenere presente, altrimenti si cade in un’interpretazione di mistica tradizionale, che la negazione del linguaggio ha in Wittgenstein un valore positivo: il silenzio delimitando il dicibile, rende possibile il linguaggio.
Questo silenzio non fu solo teorizzato. Dal 1921 in poi, anno di pubblicazione dell’opera, Wittgenstein smetterà di fare filosofia, facendo prima l’architetto, poi il maestro elementare e  perfino il giardiniere, immergendosi, cioè, in quella vita, che sarà la cifra del suo secondo filosofare.
Nella proposizione 107 delle Ricerche filosofiche, Wittgenstein fornisce spiegazione al silenzio  cui conduceva il metodo della sua prima opera, mettendo in evidenza che quel tacere, quella fine del filosofare, non erano un incidente di percorso del Tractatus, ma erano la conseguenza coerente e non aggirabile di quanto l’opera aveva teorizzato (molti interpreti, i primi dei quali Russell e i circolisti, avevano pensato alla chiusa mistica, come una deviazione dalla purezza del Tractatus, non scorgendovi, invece, il necessario esito): «Siamo finiti su una lastra di ghiaccio dove manca l’attrito e perciò le condizioni sono in certo senso ideali, ma appunto per questo non possiamo muoverci. Vogliamo camminare; dunque abbiamo bisogno dell’attrito. Torniamo sul terreno scabro!»[12]. L’esperienza didattica nella scuola elementare, forse ancor più che le altre esperienze extra-filosofiche, lo mise a contatto con il problema reale – e non più formale – dell’acquisizione del linguaggio e del significato delle parole. Ancor prima di approdare alla stesura finale delle Ricerche filosofiche[13], Wittgenstein farà sedimentare la sua filosofia matura in scritti quali Libro bluLibro marroneGrammatica filosofica, in cui il problema del significato di una parola assume un carattere centrale e il problema del linguaggio si sposta in modo sempre più marcato, da uno spazio privato e mentale ad uno pubblico e intersoggettivo. Si potrebbe tergiversare a lungo per spiegare in che modo questo scarto si sia verificato, ma basta affidarsi a questa frase «Il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio»[14]. Questa frase, benché possa apparire a chi non si occupa di filosofia del linguaggio quasi banale, segna invece il definitivo distacco di Wittgenstein dall’influenza di Gottlob Frege, che aveva dato una celebre definizione del significato attraverso il cosiddetto triangolo (poi ripreso da Ogden e Richards) segno-senso-significato[15], nel quale il senso è il contenuto cognitivo del nome e il significato è l’oggetto corrispondente al nome. Tale distinzione oltre ad essere quanto mai problematica, demandava ad uno spazio intimo, mentale la comprensione del linguaggio. Ad ogni nome corrispondeva una rappresentazione; il problema fregeano era stato quello di cercare un senso oggettivo, laddove le rappresentazioni non potevano che essere soggettive. Quando dice che il significato è l’uso che noi facciamo di una parola, Wittgenstein trasferisce il significato dal luogo arcano della mente a quello plurale dell’azione. L’uso di una parola è da sempre un uso plurale in quanto chi parla un linguaggio lo fa in un contesto pubblico. Il soggetto che usa il linguaggio non è un soggetto disincarnato, non è il cogito cartesiano né l’Io puro di Kant, ma è un essere sociale, in quanto l’uso rimanda ad un contesto di attività e consuetudini sociali. Senza la dimensione della prassi il linguaggio non sarebbe perfetto, sarebbe morto: «Ogni segno, da solo, sembra morto. Che cosa gli dà vita? – Nell’uso, esso vive. Ha in sé l’alito vitale? – O l’uso è il suo respiro?»[16]. E ancora: «Il segno (l’enunciato) riceve la propria significanza, il proprio significato, dal sistema di segni, dal linguaggio cui appartiene. In breve: comprendere un enunciato significa comprendere un linguaggio. È come parte del sistema di linguaggio che l’enunciato ha vita. Ma v’è la tentazione d’immaginare che ciò che dà vita all’enunciato sia qualcosa, in una sfera misteriosa, che accompagni l’enunciato. Ma qualunque cosa accompagni l’enunciato non sarebbe per noi che un segno ulteriore, un altro segno»[17]. Siamo così passati da una concezione atomistica ad una olistica del linguaggio. Wittgenstein usa spesso la metafora degli scacchi: come in una scacchiera, il re significa solo in rapporto ad un complesso sistema di regole, solo in rapporto ai pedoni, alla regina, ecc… Da solo non significa nulla. Ai tempi del Tractatus, Witttgenstein ricercava l’essenza del linguaggio sotto la superficie del linguaggio quotidiano, dagli anni ’30 in poi arrivò alla conclusione che non bisognasse cercare al di sotto della superficie, ma che era necessario guardare con sguardo nuovo alla superficie stessa.
Tale sguardo nuovo è tipico di tutta la filosofia post-Tractatus ed è volto alla distruzione di quella che Gargani chiama la «logica del doppio», orma di cartesianesimo, che ci spinge a credere che il linguaggio per funzionare abbia bisogno di un duplicato mentale, di un regno nascosto in cui i segni morti vengono vivificati, che vi sia una differenza tra il fenomeno e il reale: «Il fenomeno non è sintomo di qualcos’altro: è la realtà» scrive Wittgenstein nelle Osservazioni filosofiche[18]. Le parole non sono fenomeni dei pensieri, ma i pensieri esistono solo in quanto parole. Liberandoci dall’idea che il pensiero sia un processo occulto e solipsistico, malattia inoculata dal cartesianesimo, riconduciamo il linguaggio dai recessi interiori della coscienza alla sua base sensibile e sociale.  Il significato non è più oggetto di rappresentazione o intuizione, ma di una decisione, attuata nella prassi pubblica di una società. Siamo arrivati a quella svolta che è il passaggio dall’ «io» al «noi»[19], le parole infatti «hanno significato soltanto nel flusso della vita»[20].
Questa svolta wittgensteiniana presuppone l’abbandono dell’idea di essenza tanto in ambito linguistico, quanto in ambito concettuale (sebbene sia esplicito che in Wittgenstein questi due piani vengono definitivamente a coincidere). L’abbandono dell’essenza, ossia dell’universale quale quid unificante delle differenze, porta Wittgenstein ad elaborare due delle sue più celebri teorie: quella del gioco e quella delle somiglianze di famiglie.
Perché l’idea di gioco? Per vari motivi, ma anche perché ci consente di comprendere che così come noi chiamiamo gioco una serie di pratiche che non hanno un’essenza in comune fra loro – il calcio, gli scacchi, il bridge – allo stesso modo possiamo mettere sotto uno stesso termine, vari concetti, che però non vanno considerati come accidenti di un’unica sostanza.
Il gioco del calcio, del basket, del golf sono imparentati dall’utilizzare una palla, la dama e gli scacchi da una scacchiera, la canasta,il bridge e il solitario dalle carte, e via dicendo.[21] Non è più possibile rappresentare queste differenze sotto forma di albero, poiché esse costituiscono «una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda»[22].
Non è possibile tracciare un confine fra un termine e l’altro, poiché tale confine non esiste. Wittgenstein le chiama somiglianze di famiglia: «Non posso caratterizzare queste somiglianze meglio che con l’espressione “somiglianze di famiglia”; infatti le varie somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia si sovrappongono e s’incrociano nello stesso modo: corporatura, tratti del volto, colore degli occhi, modo di camminare, temperamento, ecc. ecc. – E dirò: i giuochi formano una famiglia »[23]. Wittgenstein pone la sua teoria delle somiglianze di famiglia e il suo ideale di filosofia come scienza descrittiva, nel solco del “principio della forma” e non del “principio della legge”. La legge e il paradigma sono l’irrigidimento della forma di vita, rappresentano una fissità che segue all’evoluzione e vengono dopo la naturalezza della vita. «Im Anfang war die Tat», questa frase del Faust amatissima da Wittgenstein, indica l’antecedenza della pratica sulla teoria, della vita sulla conoscenza; la forma di vita è, per Wittgenstein, l’Urphänomen, - citando un altro autore amatissimo dal filosofo, Goethe - l’origine non determinante da cui tutte le formazioni storiche traggono spunto.
Ma il concetto di gioco rimanda anche a quello di regola ed è questo concetto che segna il divario tra la posizione di Wittgenstein e l’ermeneutica: seguire una regola non è interpretarla, questo ritornello dovrebbe essere ripetuto fino alla nausea per comprendere la distanza tra le due posizioni, e la differente concezione di soggetto sottostante le due filosofie. Il bisogno di interpretare un linguaggio può nascere solo in colui che si trova fuori da quel gioco linguistico, non da chi è un suo attore: quando ci sentiamo a nostro agio in un gioco linguistico (in una Weltbild) non interpretiamo ma agiamo: «un’interpretazione è buona non quando non siamo in grado di interpretare ulteriormente ma quando non lo facciamo e non avvertiamo il bisogno di farlo»[24].
L’interpretazione urta, ad un certo punto, con le regole; se l’interpretazione è individuale, la regola non può che essere sociale. Wittgenstein ha decostruito il mito del ‘privato’, proprio per rivendicare il fatto che ogni uomo è agito da un’immagine del mondo ‘plurale’, tradizionale e sociale, che il suo comportamento è dettato da regole collettive: «Ciò che chiamiamo “seguire una regola” è forse qualcosa che potrebbe esser fatto da un solo uomo, una sola volta nella sua vita? (…) Non è possibile che un solo uomo abbia seguito una regola una sola volta. Non è possibile che una comunicazione sia stata fatta una sola volta, una sola volta un ordine sia stato dato e compreso, e così via. (…) Seguire una regola, fare una comunicazione, dare un ordine, giocare una partita a scacchi sono abitudini (usi, istituzioni)»[25].
Sostituendo al concetto di legge quello di regola, Wittgenstein mette in luce non solo il carattere convenzionale di quest’ultima ma l’interazione tra le regole, che è sottesa al concetto di gioco. Ogni regola ha un significato solo all’interno di un gioco e solo in relazione alle altre regole; non solo: «Make up the rules as we go along»[26], «facciamo le regole giocando», quindi può accadere che - l’esempio è di Wittgenstein – un giocatore di scacchi decida di prendere un pezzo e muoverlo oltre la scacchiera, metterlo in tasca, ecc.. Questa non è un’interpretazione delle regole del gioco degli scacchi, ma l’istituzione di una nuova regola, oppure un errore. Sarà un errore qualora nessuno userà l’eccezione da me creata, oppure  l’istituzione di una nuova regola, qualora molte persone decidano che mangiare la regina, significa mettersela in tasca. È come la morfologia di Goethe: vi sono le leggi, le variazioni e le devianze. Una variazione può divenire legge, una malformità della pianta può divenire la sua nuova costituzione. Nessuna regola può arginare in eterno la produttività della natura o della storia.
Anche l’influenza di Wittgenstein sulla cultura occidentale ha conosciuto due fasi. I wittgensteiniani di “prima” generazione furono quelli direttamente influenzati dal Tractatus logico-philosophicus : Carnap, Schlick, Waismann

[1] L. Wittgenstein, Movimenti del pensiero. Diari 1930-1932/1936-1937, tr. di M. Ranchetti e F. Tognina, Quodlibet, Macerata 1999, p. 38.
[2] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, tr. di M. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1995, § 118.
[3] L. Wittgenstein, Grammatica filosofica, tr. di M. Trinchero, La Nuova Italia, Firenze 1990, pag. 49.
[4] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, tr. di A. G. Conte, Einaudi, Torino 1989, 6.53.
[5] Ibidem.
[6] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, cit., 6.53.
[7] La parola solo è sottolineata nel manoscritto due volte.
[8] L. Wittgenstein, Lettere a Ludwig  von Ficker, a cura di G. H. von Wright, tr. di D. Antiseri, Armando, Roma 1974, pag.72.
[9] La traduzione di questa citazione è mia. Amedeo G. Conte traduce überwinden con trascendere; Wittgenstein non ci invita a trascendere le sue proposizioni, ma a superarle come si fa con una malattia; überwinden significa anche “vincere”, “avere la meglio”, e implica lo sforzo e la difficoltà connessi al superamento della cosa. La prima traduzione italiana del Tractatus logico-philosophicus di G.C.M. Colombo, utilizzava il termine ‘superare’ per rendere überwinden. Cfr. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, tr. di G.C.M. Colombo, Fratelli Bocca editore, Milano 1954, pag 285.
[10] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, cit., 6.54.
[11] Ivi, 7.
[12] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, tr. di M. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1995, § 107.
[13] Occorre ricordare che ad eccezione del Tractatus logico-philosophicus, nessuna opera verrà più pubblicata da Wittgenstein e che tutte i suoi testi  sono  dattiloscritti dettati agli alunni oppure appunti delle sue lezioni.
[14] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 138.
[15] Si confronti G. Frege, Senso e significato, in Senso, funzione e concetto, a cura di C. Penco ed E. Picardi, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 32-57.
[16] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 432.
[17] L. Wittgenstein, Libro blu, cit.,  pag, 11.
[18] L. WIttgenstein, Osservazioni filosofiche, p. 238.
[19]Cfr. B. Williams, Wittgenstein e l’idealismo, in AA.VV., Capire Wittgenstein, a cura di M. Andronico, D. Marconi, C. Penco, Marietti, Genova 1996, pag. 278.
[20] L. Wittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, cit., pag. 497.
[21] Cfr.- L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 66.
[22] Ibidem.
[23] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 67.
[24] J. Buoveresse, Wittgenstein antropologo, cit., pag. 73. Cfr. anche L. Wittgenstein, Zettel, tr. It. M. Trinchero, Einaudi, Torino 1986, § 234: «Ciò che avviene non è che questo simbolo non può più essere interpretato, bensì: io non interpreto. Non interpreto perché mi sento a mio agio nell’imagine presente».
[25] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 199.
[26] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 83.

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