lunedì 3 febbraio 2014

da L'esattezza dell'anima

Giambattista Vico la chiama eterogenesi dei fini. Camilla doveva pur avergliela citata, qualche volta. La Storia ha dei fini che vanno al di là o contrastano con quelli che gli uomini si propongono di conseguire; Marco aveva detto quella frase con il solo scopo di separare Tiziano e Giulia, ma creò con la propria azione il legame da cui finora Tiziano era abilmente evaso. Rimasto solo nella sua camera d’albergo, De Monticelli fece il suo errore e lo fece con una tale consapevolezza che si trattava si un errore, che quando mesi dopo si era ritrovato nuovamente solo in una camera d’albergo, si era rivisto lì, a Vienna, con la cornetta del telefono in mano e si era detto: «Ben mi sta». Il problema, e ciò De Monticelli lo aveva sempre sospettato, non è che gli uomini non sanno quale sia la cosa giusta, ma è che scelgono con passione quella scorretta, determinati a sbagliare con una forza viscerale. Cercò il numero di telefono, che guarda caso si trovava scritto a matita sulla prima pagina di Auto da fè di Canetti e la chiamò.
«Non sono un codardo e se non ti ho detto la mia verità di quella notte è perché le tue verità, quelle che mi hai detto a letto, le avevi già dette ad altri cento uomini».
Giulia non poteva mai immaginarsi che essere presa per una prostituta nel cuore della notte potesse darle tanta intima gioia. Era caduto, finalmente. Cercò rapidamente nel suo repertorio sconfinato di frasi spiacevoli, quella che poteva farlo imbestialire come un toro alla corrida.
«Non sei felice? Eri terrorizzato da una fanciulla che voleva sposarti e scopri invece che puoi divertirti senza problemi». Era perfida nella sua furbizia, era la figlia di Mauro Roberti, anche se Tiziano la pensava sempre come la figlia di Virginia. E poi la strada dell’errore è sempre in discesa e lui aveva iniziato a rotolare:
«Non mi hanno mai divertito le cose che divertono tutti».
Giulia sorvolò sul termine “cosa” perché quella notte non doveva essere lei ad arrabbiarsi, sentiva una potenza dentro che non aveva mai provato da quando lo conosceva. Era su un trono adesso, era alla scacchiera e i pezzi li stava mangiando lei, aspettava solo il momento giusto per lo scacco matto, ma ancora doveva lavorarselo.
«Peccato, pensavo di venire a farti visita uno di questi giorni» gli sussurrò.
«Dovrai accontentarti del pianista invidioso».
«Potrei anche cambiare strumento, un violoncellista, ad esempio».
Di nuovo il sangue alla testa, ma dissimulò: «Non ho dubbi che ne saresti capace, ma non lui». Giulia sentiva il desiderio di lui, attraverso il muto respiro del telefono. In quel momento non avrebbe giocato come a Berlino, ne era certa.
«Non è un codardo lui, cosa scommetti che lo farebbe?».
Tiziano pensò che era orribile, come il padre scommetteva sulle cose più sacre della vita, quale un’amicizia ventennale, solo per divertirsi, per poter dire trionfante che aveva ragione: che nessuno aveva dei valori in questo mondo e che tutti erano pronti a tradire.
«Il tuo problema è che non sai cosa sia l’amicizia – le disse – la fiducia totale in un’altra persona. Pensi che siano tutti squallidi come te».
Giulia deglutì, doveva rimanere calma. Con o senza fiducia nell’amico del cuore, si disse,  Tiziano stava impazzendo al solo pensiero. «Perché mi hai chiamato allora?».
E perché? Tiziano avrebbe voluto dirle con Wittgenstein che la logica ci spiega il come ma mai il perché e lui il perché non lo sapeva.
«Perché non lo ammetti che daresti tutto per avermi lì di fronte a te, con la camicia che avevo a Berlino?» recupero la voce più carezzevole.
«Perché non è vero».
Giulia rise, prima era rimasto in silenzio, ora aveva mentito. Poteva giocare l’ultima mossa:
«E comunque non hai capito niente di me, se pensi che andrei con Johannes per farti dispetto – era irritata veramente – sei tu squallido se pensi che la felicità che ho provato con te l’altra notte, l’ho già vissuta con altre persone. Non hai capito niente di quello che t’ho detto, perché pur di non vedere l’unica verità, metti la testa sotto la sabbia».
Cambiava così rapidamente le sue verità, che Tiziano  aveva tre o quattro immagini di lei, tutte insieme: quella della camicia a Berlino, sicuramente, ma poi c’era quella delle passeggiate serali per Roma, quando ridevano citando Cèline, quella della ragazza che piangeva di spalle per non farsi vedere, alla ricerca disperata delle sue mutandine.
«Non c’è nessuna verità fra di noi, sei una bugiarda e basta».
«E tu sei spaventato perché ti piaccio così tanto che la prima volta mi hai violentato» era un colpo basso, lo sapeva, ma questa volta doveva vincere a qualsiasi costo. Doveva implorarla di raggiungerlo.
«Un’altra bugia, lo sai che non è vero» lo colpì come un pugno quel ricordo e si chiese come potesse conoscere a perfezione l’arte di ferire. Era la peggiore cosa che avrebbe potuto dirgli, il suo buco nero.
«Non ti saresti mai fermato e lo sai. Tu sei anche quello, Tiziano».
«No e sei un’illusa se pensi che io ti potrò amare come amavo tua madre» l’aveva trovata anche lui la cosa peggiore che poteva dirle, il vero tallone d’Achille di Giulia, il luogo in cui ferirla mortalmente. Lo capì subito che era troppo, lui non era come lei, non poteva dirle certe cose. «Giulia, aspetta…».
La sentì piangere, dall’altra parte: «Mi fai schifo, sparisci» attaccò.

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